The place you have come to fear the most

Fluffathlon, III settimana
Temporal-mente, 01. "And they will assist us 'cause we're asking for help." (Homogenic – Björk)

Nessuno… mi salvò.
Ma se ci fossi tu, Tsuzuki… forse mi salveresti…
(Yami no Matsuei, Volume III)

Hisoka non sognava praticamente mai; durante la sua infanzia gli capitava sovente di svegliarsi ancora immerso a metà tra i brandelli di un sogno, solitamente un ricordo del periodo in cui era ancora un bambino “normale” ed i suoi genitori, pur schermati dalla rigida etichetta aristocratica, gli volevano bene. Sua madre non cucinava per lui e suo padre non lo prendeva sulle spalle, ma erano sempre pronti a sorridergli, quando lo vedevano; sceglievano per lui bei giocattoli e libri graziosi ed interessanti, curando la sua educazione come un botanico farebbe con una rara e giovane piantina.

Poi era diventato anormale, la sua empatia aveva preso a manifestarsi più spesso e via via con esiti sempre più drammatici: non poteva più essere portato ad alcuna festa, perché nel giro di pochi minuti la testa gli si riempiva dei pensieri e delle sensazioni di coloro che lo circondavano, e lo pressavano, lo assordavano, lo tormentavano finché non scoppiava in lacrime. All’inizio i suoi genitori avevano pensato ad una malattia nervosa: con dolcezza lo avevano accompagnato da tutti i luminari del settore, che avevano però riscontrato in lui semplicemente una grande sensibilità; poi aveva iniziato, senza riflettere, a ripetere ad alta voce ciò che leggeva nella mente dei suoi genitori, e quella era stata la fine: ogni volta che, anche solo per sbaglio, rispondeva ad una domanda che sua madre aveva formulato solo col pensiero, o prevedeva una delle azioni di suo padre, c’era la cella nel seminterrato della villa ad attenderlo.

Col passare degli anni, in effetti, non vi era uscito praticamente più; glielo consentivano solo quando c’erano in visita ospiti che chiedevano del piccolo Hisoka, quel ragazzino così grazioso e beneducato: allora suo padre andava a prenderlo e, conficcandogli le unghie nel braccio, gli ripeteva Niente scherzi, ragazzo, o ti garantisco che non rimetterai più piede fuori da quella stanza.

Lo diceva, ma i pensieri che suo figlio leggeva erano diversi: Ci manca solo che questo mostro ci svergogni davanti a qualcun altro… sarebbe la rovina della nostra famiglia, come se non avessimo già la condanna di questo ragazzo spaventoso di cui non possiamo liberarci!

Nella mente di sua madre non leggeva parole: solo una sensazione di cieco terrore e di ripugnanza all’idea che, un tempo, avesse portato nel grembo un mostro; a lei era più difficile sfuggire: la rabbia di suo padre lo colpiva, ma la paura ed il raccapriccio di sua madre lo travolgevano come un fiume in pieno, riempiendogli la bocca ed i polmoni di acqua.

Da quando aveva compiuto tredici anni, non gli era più stato permesso di uscire dal sotterraneo: non vi era propriamente rinchiuso, era lui che, inconsciamente, aveva preferito così; non c’erano persone, là sotto, non c’erano pensieri estranei e violenti ad assaltare la sua mente già tanto spaventata. Era al sicuro, nel buio quieto della sua prigione.

Era crudelmente ironico che tutto fosse successo l’unica volta che aveva desiderato davvero di uscire di lì: assurdamente, la reclusione che gli avevano velatamente imposto i suoi genitori lo avrebbe salvato.

Ricordava tutto di quella notte, e anche questo era orribile: forse era stato meglio quel periodo orrendo, di dolore e agonia costante, in cui non aveva potuto ricordare nulla; aveva dato la colpa a se stesso e questo gli aveva reso più tollerabile tutto: era persino arrivato a dirsi che era bene così, che avrebbe finalmente liberato la sua famiglia e se stesso da un problema che si faceva più gravoso ogni giorno di più; sperava solo che il dolore finisse presto, che tutto finisse presto.

E poi era finita.

Anzi, era iniziata: era morto, era finito nel Meifu e si era messo a cercare informazioni sulla sua morte, dopo aver colto il pettegolezzo di alcuni colleghi del suo ufficio: aveva capito, quando aveva letto “Nome: Hisoka Kurosaki, Anni: 16, Causa del decesso: maledizione”, che non si era permesso di morire, non prima di aver ottenuto la sua vendetta. Ma poi aveva incontrato Muraki, che lo aveva costretto a ricordare quella notte di luna rossa, e… beh, aveva pensato che avrebbe preferito non sapere, perché il suo corpo non aveva dimenticato, ma la sua mente, ignara, gli aveva fornito un alibi per continuare un’esistenza sopportabile. Muraki gli aveva tolto anche quello.

E adesso, ogni volta che lo incontrava, la sua memoria di quella notte gli tornava in sogno in ogni particolare, senza graziarlo di un solo dettaglio: la luna, rossa come una chiazza di sangue nel cielo nero; la fronda orrendamente bianca del ciliegio, quasi irreale nel suo pallore iridescente nella notte dal cielo macchiato di orrore; il corpo svenuto della donna e il pugnale, la lama scintillante di luce fredda nella mano pallida da morto; lo sguardo di Muraki… era la prima volta che osservava qualcuno e non si sentiva travolto dai suoi pensieri, le sue paure, i suoi desideri; aveva provato la spaventosa sensazione di annegare nella volta nera e senza stelle, e quello sarebbe stato nulla in confronto al dopo. Le ricordava con raccapriccio, le mani di Muraki: mani bianche, fredde, quasi non vi scorresse il sangue, ma forti come morse; nessuno lo sfiorava da anni, ed il suo ultimo ricordo di un tocco umano era quello del dottore, una memoria nauseante, dolorosa, ripugnante.

E ciò che gli rimaneva, nella morsa dei conati del risveglio, era l’eco della sua stessa voce che urlava, che chiedeva aiuto.

Aiuto… a chi? Non c’era nessuno che potesse salvarlo, quella notte, nessuno che lo avrebbe salvato; aveva gridatoAiuto!, infatti, senza implorare a qualcuno in particolare di correre in suo soccorso. Eppure, quando aveva fatto quel sogno durante la missione sulla nave Queen Camelia, aveva rivissuto la sua orribile esperienza e, come sempre, aveva gridato: ma quella volta aveva chiamato Tsuzuki.

Non che il suo partner potesse essere di chissà che utilità, razza di scemo che non era altro; anzi, con la fortuna che li contraddistingueva, probabilmente Muraki avrebbe ammazzato lui e si sarebbe dedicato a tormentare l’altro shinigami. Eppure… eppure, nella sincera incoscienza del sonno, aveva chiamato lui: Tsuzuki che faceva sempre casino, non capiva mai niente e si trovava sempre messo a mal partito con il dottore, che lo mandava in bestia con la sua stupida allegria. Eppure… eppure aveva chiamato lui; non perché il suo partner fosse una sicura garanzia di soccorso (Tatsumi-san, piuttosto, sarebbe stato un’opzione rassicurante!), ma perché sapeva che lui ci avrebbe provato a salvarlo, anche a costo della sua stessa vita. Tsuzuki era irresponsabile e si cacciava sempre nei guai, tanto che chiunque gli fosse intorno non riusciva neppure a pensare di abbandonarlo al suo destino, eppure… era la sola persona che lo facesse sentire al sicuro.

Hisoka si riscosse dall’ennesimo incubo e, entrato nel bagno del suo appartamento, si lavò lentamente il viso con l’acqua fredda; per reazione a quei pensieri non propriamente da lui, quel giorno fu ancor più scostante e sgradevole nei confronti di Tsuzuki, che si limitava a guardarlo con l’aria disperata di un cucciolo sgridato ingiustamente. Il ragazzino lo ignorò con superiorità, ben determinato a non cedere a quello sguardo lacrimoso, furioso proprio per i sentimenti di gentilezza che rischiava di ispirargli, e chiuse il più possibile la sua mente per non subire l’involontario assalto dei sensi di colpa del suo partner.

Eppure, quando fu di ritorno al suo spoglio appartamento, quella sera, sentì un fastidioso vuoto attorno a sé, come se non avere la continua parlantina di Tsuzuki a rintronargli le orecchie, o la sua aria festante e premurosa intorno, gli creasse un certo disagio. Uscì dal bagno, ancora avvolto nell’accappatoio, e guardò con timore al suo letto: persino le lenzuola stirate e l’anonima coperta ben tesa gli sembrarono nemiche, nella spaventosa prospettiva di un’altra notte di sonno in cui gl’incubi sembravano attenderlo come in un agguato. Girellò attorno al suo nemico dall’aspetto innocuo per un pezzo, leggendo qualche documento del lavoro ed un libro, ma alla fine si accorse che gli occhi gli si chiudevano da soli e dovette cedere: si avvicinò guardingo al materasso e si infilò sotto la coperta, indugiando con la luce accesa.

Sperò in una notte senza sogni, una placida e tranquilla notte vuota, come ne aveva avute per anni, e spense l’abatjour.

 

~*~

 

La luna rossa sorse davanti ai suoi occhi prima ancora che potesse accorgersi di aver preso sonno.

Sapeva cosa sarebbe successo e cosa avrebbe visto, e sapeva anche che non sarebbe riuscito a sfuggire a quell’ennesimo incubo in alcun modo, così come non avrebbe potuto nulla contro Muraki: era condannato a rivivere quell’orrore di nuovo, come se agli dei non bastasse di averglielo fatto subire una volta.

Ecco, infatti: si muoveva nella radura deserta, illuminata solo di quella spaventosa chiazza di sangue raggrumato appesa in cielo; il ciliegio era là sotto, bianco come un insulto alla mostruosità di cui era e sarebbe stato spettatore e scenario per l’ennesima volta. Ecco il pugnale, ecco il corpo insanguinato della donna, ecco gli occhi di Muraki, quello di vetro, sgranato, e quello vivo, non meno spaventoso.

Come ogni volta tentò la fuga e, come ogni volta, il dottore gli fu addosso in un lampo: sentì la sua mano sinistra stringergli il braccio, le unghie che affondavano nella carne, la sinistra strappare, quasi senza fretta, l’obi che teneva il suo yukata da notte. Iniziò a piangere anche solo per la disperazione di doverlo rivivere con la paura, il dolore ed il disgusto della  prima volta.

E invece, stavolta, il dottore non riuscì neppure a sfiorarlo.

– Muraki! Lascialo andare, dannato maniaco!

Le spalle dell’uomo gli nascondevano la visuale, ma avrebbe riconosciuto quella voce tra mille e senza possibilità di errore: la sorpresa fu tale che le lacrime si arrestarono sulle sue guance, come gelate.

– Ma che meravigliosa sorpresa, signor Tsuzuki – il dottore lo lasciò in terra, l’erba che gli punzecchiava la pelle nuda delle gambe e della schiena – Devo ammettere di preferire di gran lunga lei a questo moccioso.

– Non toccherai Hisoka – ringhiò Tsuzuki, sfoderando un ofuda – Hai la mia parola.

Aveva già visto quel combattimento: era accaduto a Nagasaki, durante la loro prima missione insieme; Tsuzuki aveva l’aria spaventosa che gli aveva visto poche volte, in quei rari momenti in cui la rabbia prendeva il sopravvento: i lineamenti si indurivano al punto da regalargli un volto estraneo, duro, affilato, da uomo, e non da eterno ragazzino, da belva, non da essere umano. E, come a Nagasaki, neppure il dottore sembrava in grado di far nulla contro di lui, in quei momenti: la sagoma biancovestita, iridescente come il ciliegio nella notte, si dileguò nella notte, come se ne fosse parte; Hisoka si accorse solo in quel momento di aver quasi smesso di respirare, e che la terra era umida, il vento sulla sua pelle nuda freddo, e il cielo iniziava a schiarirsi perché la luna, lentamente, perdeva la sua tinta sanguigna per colorarsi di un bianco perlaceo, luminoso. La sagoma di Tsuzuki, avvolta nel suo cappotto nero, sembrava circondata da un’aura tranquilla, che lo staccava dalla notte che gli faceva da sfondo; gli sorrise, di colpo quello di sempre, e Hisoka tremava così tanto che non riusciva a fare altro che osservarlo, gli occhi verdi, sgranati dalla paura, le tracce di lacrime che si gelavano sulle sue guance.

– T-tu… – riuscì a balbettare.

– Prenderai freddo, così – disse l’uomo, avvicinandosi: tolse il cappotto dalle spalle (e la camicia brillò candida come la luna dopo il passaggio delle nuvole) e si inginocchiò davanti al ragazzo, avvolgendolo con delicatezza; Hisoka rimase immobile in quella sensazione sconosciuta, assaporando sulla pelle il calore del soprabito e nelle narici un odore diverso da quello di muschio bianco di Muraki; non ci aveva mai fatto caso, ma Tsuzuki sapeva di un dopobarba un po’ anonimo e di dolce, come se avesse appena finito di sbafare uno dei suoi soliti dessert. Il caldo gli filtrava nella pelle nuda in tanti rivoli, come un abbraccio che non aveva mai conosciuto, se non sull’aereo, mentre fuggivano dalla Queen Camelia; non ebbe bisogno neppure di tentare di coprirsi, perché fu il suo partner a rimboccargli la lunga stoffa del cappotto attorno alle gambe, annodandogli la cintura di tessuto rigido attorno alla vita – Va tutto bene – sussurrò, accarezzandogli le guance e asciugando le lacrime. Anche le sue mani erano calde, confortanti come il soprabito.

– Perché sei qui? – riuscì a mormorare Hisoka, la voce impastata di pianto e paura.

– Sei tu che mi hai chiamato – rispose Tsuzuki con un sorriso tranquillo, come se fosse una cosa ovvia che lui fosse lì, nel suo sogno.

– Io?

– Hai gridato “Aiutami, Tsuzuki!” e io sono corso subito qui.

Il ragazzo si portò una mano alle labbra: era vero, non se n’era mai accorto, ma dopo l’episodio della Queen Camelia, di Tsubaki e della sequela di morti legate ai tarocchi, nei suoi incubi aveva sempre chiamato Tsuzuki.

– Scusami se ci ho messo tanto – aggiunse l’uomo, risistemandogli i capelli arruffati con le dita (era un sogno, pensò il ragazzino sorpreso, perché era certo che, nella realtà, il suo partner gli avrebbe solo tirato i capelli se avesse mai provato a tentare di districarglieli in quel modo).

– Non ti scuso – sussurrò, sapendo che non era vero.

Tsuzuki sorrise come se avesse capito perfettamente e, senza rispondere, lo attirò gentilmente a sé, stringendolo tra le braccia con delicatezza, come se temesse di romperlo – Prometto che non succederà più – bisbigliò, accarezzandogli i capelli; quella sensazione nuova era così bella e confortante, persino per lui che non tollerava il minimo contatto fisico, che Hisoka chiuse gli occhi, posando il capo nell’incavo della spalla dell’altro.

Ci credeva davvero: se avesse di nuovo sognato quella notte, quella luna rossa e Muraki, Tsuzuki sarebbe venuto a salvarlo ancora.

 

~*~

 

Quando Hisoka aprì gli occhi, quella mattina, rimase accoccolato nel calduccio del suo letto, osservando la sottile luminosità che filtrava dalla serranda vecchiotta e tutt’altro che ermetica; ignorò il ticchettio dell’orologio e rimase ad osservare il soffitto, provando una tale beatitudine che non avrebbe mai voluto uscire da quel bozzolo rassicurante.

Chiuse gli occhi un istante, assaporando il ricordo dell’abbraccio di Tsuzuki, caldo e gentile come fosse stato reale, e si lasciò cullare ancora un po’ da quella sensazione.

Si ripromise di essere un po’ più gentile con il suo partner, quel giorno.


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