Quattro giornate ~ Capitolo I, 25 Aprile 1868

Big Damn Table Seishiro/Subaru, 007. Giorni

E così il momento è arrivato, si disse Seishiro Sakurazuka, alzando lo sguardo verso la stretta finestra, sbarrata da inferriate, della sua prigione.
Era tranquillo, ammantato dalla placida serenità di chi sa di aver compiuto il suo dovere e di aver fatto tutto ciò che era in suo potere.
Ripensò alla sua vita, a quando, da bambini, lui e Yuto giocavano insieme dalla mattina alla sera, terrore dei ragazzini a loro antipatici e disperazione delle madri, che se li vedevano tornare ogni giorno a casa con qualche nuovo graffio. Ricordava ancora la sensazione della terra morbida e polverosa sotto i piedi scalzi, dell’erba bagnata di rugiada del mattino; le piccola prede che lui e Yuto catturavano al bordo dei campi dove i loro genitori lavoravano assieme agli altri contadini, ridendo e scuotendo il capo davanti a quei ragazzini così scapestrati.
Rivedeva, come se ce l’avesse ancora davanti, quella sera, quando erano scappati di nascosto dal letto per andare a caccia di lucciole sul fiume, e poi, alla fine, non avevano osato sfiorarne neppure una: quegli insetti lucenti sembravano esseri fatati, magici, e loro erano rimasti a guardarli, seduti spalla contro spalla sulla rena, con lo sciabordio dell’acqua in sottofondo. Era un bel ricordo, si disse: quella sera aveva confessato a Yuto il desiderio di entrare nella Tennen Rishin Ryu per diventare, da grande, un samurai, come quegli eroi ai quali loro due guardavano con la reverenza che si ha per gli dei.
Bei sogni di bambino, pensò con un sorriso affettuoso; c’era più della gloria, sotto l’armatura di un samurai: c’erano il dolore, l’onore, la fermezza, la nobiltà d’animo, ma anche la bassezza e la codardia dimostrate dalle milizie imperiali; Yuto gliel’aveva detto, quel giorno, neppure un mese prima, quando gli aveva comunicato di volersi recare nel quartier generale del nemico affinché i samurai della Shinsengumi venissero risparmiati.
Povero vecchio amico mio, pensò con amarezza; aveva tentato di proteggerlo, lo aveva supplicato con le lacrime agli occhi, ma non aveva capito che lui era perfettamente consapevole, qualora non avesse trovato l’onore che sperava presso i loro avversari, che sarebbe stato ucciso.
E lo desiderava.
Il suo mondo era fatto di lealtà e dignità: se davvero, come diceva Yuto, quel tempo stava volgendo al termine, per lui non c’era più posto ed era il tempo di morire.
Guardò il buio cupo della notte che intravedeva da quello stretto ritaglio nel muro e pregò gli dei di vegliare su colore che lasciava.
Pensò a Fuma, confinato ormai da tempo in un letto, a cui non restavano che pochi giorni di vita; magari, mentre lui era lì a contare le ore che lo separavano dal patibolo, era già morto, soffocato dal sangue di quel male straniero. Provò un vago sollievo al pensiero che, forse, quel ragazzino dagli occhi viola gli era accanto, e che Monou era riuscito a riconciliarsi con il suo cuore prima della fine; si sentì felice nel ricordare il suo viso, emaciato dalla malattia, ma con la stessa feroce ironia negli occhi febbricitanti, e rimpianse di aver creato quel muro tra loro otto anni prima.
Quasi trasportato da quel ricordo, l’occhio gli cadde sul polso sinistro, scoperto dalla manica, e sentì la mancanza del cordone rosso ed oro che vi annodava ogni volta che lasciava il tempio di Nishiogen; ricordava ancora il momento in cui lo aveva sciolto dai capelli di Subaru, che erano subito ricaduti a coprirgli il collo nudo.
Il suo unico rimpianto.
Aveva parlato con il suo compagno, tempo addietro, della possibilità che lui morisse; aveva provveduto a garantirgli una rendita con la quale potesse vivere, ma Subaru gli aveva risposto con un sorriso tranquillo.
Io non ho intenzione di sopravviverti, Seishiro.
Si era infuriato, l’aveva minacciato, lusingato, ma non c’era stato verso di allontanarlo da quell’idea. Non voleva che Subaru morisse. La sola idea di saperlo, un giorno, tra le braccia di un altro, lo faceva impazzire, certo: ma immaginarlo morto, riverso nel suo stesso sangue, per colpa sua, era altrettanto insopportabile.
Sperò non facesse sciocchezze e sospirò. Posò il capo contro una parete e chiuse gli occhi, sforzandosi di rievocare l’immagine del suo amante: le dita sottili, il collo liscio e bianco, gli occhi verdi, screziati come gemme, i ciuffi lunghi sulla fronte, le labbra pallide, morbide. Il ricordo era così vivido che gli parve di poterlo sfiorare e, di colpo, trovò insopportabile l’idea di non rivederlo più, di non poterlo più stringere tra le braccia, di non svegliarsi al mattino con lui accanto, di non trovarlo più ad attenderlo al suo ritorno al tempio di Nishiogen.
Si portò una mano al volto, sentendosi soffocare dall’angoscia, ma il rumore del chiavistello lo scosse e si alzò in piedi alla vista del carceriere.
L’uomo entrò, fissandolo con imbarazzo – Sakurazuka-san… È ora.
Diede uno sguardo alla finestrella e vide che il cielo era colorato dalle tinte leggere dell’alba. Pensò a Subaru e Fuma, di certo ancora a letto, ignari della sua sorte, e a Yuto, a cui aveva chiesto di riportare il suo wakizashi, avvolto nel cordone rosso ed oro, nella speranza che venisse consegnato al suo amante.
Era il momento: tutto il valore della sua vita si sarebbe mostrato durante la sua morte.
– Eccomi – disse, avanzando a testa alta verso la porta.
– A-avete bisogno di… di qualcosa? – balbettò l’uomo, sorpreso da tanta calma. Seishiro si soffermò ad osservarlo per un istante: era di certo di origini umili, figlio di contadini come erano stati lui e Yuto, e si sorprese a pensare a quanto sarebbe potuta essere diversa la sua vita se non fosse mai entrato nella Tennen Rishin Ryu, se Sakurazuka-sensei, maestro di quella scuola prestigiosa, non l’avesse adottato.
Gli sorrise con indulgenza – Vorrei radermi.
Il samurai lo fissò sorpreso, ma annuì, inchinandosi leggermente, e chiese dell’acqua calda, del sapone ed un rasoio.
Se Fuma l’avesse saputo, pensò, avrebbe riso come un matto, Yuto avrebbe scosso la testa sconsolato, alzando gli occhi al cielo, e Subaru… Subaru avrebbe sorriso, inarcando appena un sopracciglio in quell’espressione adorabilmente sorniona che aveva a volte.
Sorrise anche lui, per un istante.
– Sono pronto.


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