Ricordi di bambina
Ricordo ancora le terre di Austina, bagnate dal mare, immerse nel volteggio dei granelli di sabbia e dello stridio dei gabbiani.
I suoi abitanti sentono la presenza del mare anche quando sono chiusi nelle loro dimore, lontane dal sole caldo e dalla vista di quell’increspata distesa azzurra, e così avveniva per me, ancora bambina, capace appena di reggermi in piedi: bastava annusare l’aria che entrava da una finestra, che portava l’odore della salsedine, dell’acqua salata; bastava alzare gli occhi al cielo, mentre sedevo in giardino con le mie bambole, per vedere i gabbiani rincorrersi nell’aria: li indicavo allora alle mie amiche di stoffa, raccontando loro cos’erano il mare e la sabbia, perché la mamma non mi permetteva di portarle con me nelle mie incursioni sulla spiaggia, dicendo che si sarebbero irreparabilmente rovinate.
Ricordo i pomeriggi trascorsi sulla battigia, le gonne gonfiate dal vento, i capelli che si annodavano in quell’aria appiccicosa ma odorosa di qualcosa che non riesco più a dimenticare né a ritrovare in nessuna delle tante stanze del mio palazzo di Sephiro. È forse il ricordo di quei tramonti giganteschi che fissavo con gli occhi sgranati, incurante delle onde che mi bagnavano i piedi e l’orlo del vestito, che si espandevano attorno a me, come un’immensa calotta arancione, rossa, gialla, di così tante sfumature che sarebbe impossibile dare un nome a ciascuna di esse; è forse la memoria dello stridio dei gabbiani, un suono selvaggio, forte, che si alzava su ali bianche e grigie, così in alto che io vedevo solo quelle, con la buffa impressione che quegli uccelli fossero simili alle sagome dipinte sul soffitto di una delle sale del palazzo; è forse nostalgia della mia lotta con le onde, che sfidavo correndo loro incontro quando si ritiravano, tenendomi le gonne per non essere intralciata, e che fuggivo quando si riabbattevano con grazia, come carezze, sulla sabbia bagnata, dove i miei piedi lasciavano impronte leggerissime, che scomparivano in un soffio.
Ora qui, alla mia finestra, vedo piccoli uccellini variopinti saltellare senza remore vicino alle mie mani, e ripenso a me bambina, con le gonne gonfie di vento e i capelli sparsi sulle spalle, che rincorrevo i gabbiani, con lo sguardo in alto, verso quel cielo blu e quelle sagome bianche e grigie, tendendo loro le braccia per acciuffarli, chiamandoli e ridendo del loro volteggio goffo; e capisco solo adesso che tendevo le braccia per spiccare il volo con loro, non per afferrarli, e che ridevo, ridevo, di una gioia di cui ora non ricordo altro che il vago suono della mia risata.
E che qui, nella torre del palazzo di Sephiro, dove vivo come Pilastro di questo mondo, non ci sono più onde, né sabbia, né gabbiani a cui tendere le braccia, con l’illusione che potranno portarmi via con loro.
Perché qui ci sono solo sconfinate pareti di cristallo.
Dalle quali non potrò più uscire.
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