Luce all'estremo confine del mondo

SfigaFandomFest 2011 (Fanworld), "Honey&Clover, Takemoto, Limite"

E com’era… la fine del mondo?
Non c’era niente. Però… era molto luminosa.
(Honey and Clover, Chika Umino, volume VII)

Quando sono partito, ero pieno di legacci, come un traliccio della luce di campagna, al quale si fossero avviluppati e annodati, nel tempo, tralci di edera, rovi, fili d’erba lunghi e cardi; e, come accade ad un albero stretto nella morsa del vischio, mi sembrava di soffocare e che fosse impossibile qualunque movimento, qualunque sensazione che non fosse quella di essere stretto, legato da un’infinità di problemi: l’università da finire, il denaro speso da mia madre per me, la mancanza di scopi, il non sapere cosa fare “da grande”, i dubbi, le incertezze, un amore che non sapevo dove sarebbe andato a finire.

Poi, un giorno, il frigo vuoto mi rimandò lo stesso suono che sentivo ogni momento nelle orecchie e che non sapevo riconoscere: un suono greve, pesante, silenzioso, che si espandeva nella testa e nella gola come un’onda afona, che premeva e premeva contro i lacci che mi stringevano gambe e braccia; così, semplicemente, ero partito. Avevo lasciato dietro di me la mia casa da studente, poi il supermercato che dovevo raggiungere, poi il mio quartiere, poi quello successivo, e alla fine le luci di Tokyo erano un alone in lontananza: la stanchezza mi aveva reso le gambe di piombo, ero caduto e lì mi ero addormentato.

La mattina dopo, semplicemente, ero risalito dolorante sulla bicicletta e avevo continuato ad andare. Non c’era una meta, come non c’era una direzione nella mia vita: mi lasciavo trasportare dalla testa vuota e dalle gambe che premevano sui pedali e mi spingevano lungo la strada, qualunque strada, purché Tokyo rimanesse dietro di me.

Il primo laccio si è rotto quando ho attraversato la galleria, al buio, con il puzzo dei tubi di scappamento, urlando, finalmente, che avevo paura, paura, paura, paura, e urlando, con il rombo delle macchine e dei camion nella testa, ho capito che era dei limiti che avevo paura: dei miei, di quelli delle relazioni che avevo, del tempo, di tutto. Del tempo che scorre, implacabile, che mi trasportava avanti come i pedali della bicicletta, senza che io sapessi dove stavo andando.

Ho visto tanto, in quei tre mesi: ho imparato che i negozi “Tutto a 100 yen” possono rivestirti da capo a piedi, quando scappi di casa con solo i vestiti che hai addosso e il portafoglio con la carta di credito; ho imparato che si può viaggiare dormendo all’aperto per le strade, cucinando su un fornelletto a gas trovato in riva al mare, e che i trentacinque yen dei ramen istantanei sono una benedizione per gli studenti squattrinati; ho imparato che si può incontrare gente che ti aiuta anche se sei un ragazzo che ha macinato chilometri in bicicletta ed è vestito con abiti da due soldi, impolverati e sudati; ho imparato che chiunque può insegnarti qualcosa e che si può imparare di tutto anche nelle situazioni più strane; ho imparato che il suono del frigo lasciato vuoto a casa era lo stesso della paura e che annebbiava la mente e strozzava la gola, ma pedalando, ascoltando solo il suono della campagna, del vento, della pioggia e dei pedali, iniziava a smorzarsi sempre più; ho imparato a conoscere il mio paese e i miei limiti, che le biciclette da città non sono fatte per i lunghi percorsi, che l’università non mi aveva preparato affatto per un lavoro vero al di fuori dei libri, che mi piaceva cucinare e fare il bucato per gli altri.

E ho imparato che la fine del mondo è un posto deserto, pieno di luce, dove la pioggia finisce e ogni legaccio si strappa, dove la fatica sparisce e l’unica cosa che ti viene in mente dei due mesi passati in bicicletta è la consapevolezza che, pur con tutti i tuoi limiti, mettendo un piede davanti all’altro, spingendo un pedale alla volta infinite volte, finché ti reggono le mani, la schiena e il sedere, puoi raggiungere l’estremo confine del mondo, dove la pioggia finisce e cielo e mare diventano una cosa sola laggiù, dove l’occhio non riesce più a distinguerli. E ho imparato che non ci sono Verità, non ci sono Risposte, c’è solo la consapevolezza che sono qui, sono vivo, e basta voltare la bicicletta di nuovo verso la terra e pedalare ancora, prima un pedale e poi l’altro, per tornare a casa, dalle persone che amo e da una vita che non ha ancora la sua Strada, ma non mi fa più paura.

Alla fine non avevo trovato nessuna risposta ai miei dubbi: ma quando mi ero trovato lì, sull’ultimo lembo di terra del mio Paese prima dell’oceano, l’unica cosa che avevo pensato era che avrei voluto che Hagu fosse lì con me; e non mi importava che ci fosse per ricambiare i miei sentimenti: mi bastava sapere che lei era sotto il mio stesso cielo, che io l’amavo e che bastava ripetere quel viaggio a ritroso per ritrovarla e vederla sorridere.

Non avevo più paura: avevo visto la fine del mondo e avevo scoperto che era un universo di luce.


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