Stairway to Heaven ~ XI. Dove il Male impara che per uno Yin c'è sempre uno Yang - che lo Yang lo voglia o no

– No. Vi lascio in mano a lui.

– ... fammi capire: ci lasci in mano al Male?

Metroman lo aveva guardato con un’aria assurda, di affettuosa incredulità – Se quello è il Male, Kurt, poi mi racconti come chiami quello che sta smontando la città adesso. Nightbird non è il Male, ha solo occupato un posto libero che andava riempito – tutta quella storia dello Yinghi e dello Yong che mi ha fatto una volta...

– Erano lo Ying e lo Yang – lo corresse automaticamente Kurt.

– Va beh, quella roba: se c’è il Cattivo, ci deve essere il Buono. E adesso il Buono non c’è.

– E quale brillante deduzione ti spinge a pensare che voglia farlo lui?

– La stessa della prima volta: si deve convincere e deve farlo da solo. A volte penso che quello lì abbia più coscienza e senso del dovere di un sacco di pezzi grossi che mi è capitato di conoscere, però gli serve la spinta, altrimenti da solo non ci arriva: è talmente convinto di poter fare solo il Cattivo di non riuscire a pensare che può essere altro. La spinta dell’altra volta sono stato io e mi dispiace, quella di stavolta potrebbe essere... boh. Qualcosa da proteggere?

E l’aveva fissato, come fosse stato tutto semplice e i cretini fossero loro due, Kurt e Nightbird.

 

~*~

 

– Ti informo che la mia sessione settimanale di palestra c’è stata ieri – gridò Kurt dal fondo del corridoio, fermando la scalata di Nightbird a metà della pertica che li aveva portati nel sotterraneo.

L’altro era rimasto lì, a scrutarlo tra il perplesso e l’esasperato – E quindi?

Kurt indicò spazientito l’unica via d’uscita disponibile – Non ho con me l’abbigliamento adatto per l’attività fisica! Come pensi che riesca a salire là sopra?

Nightbird si strinse nelle spalle e fece per proseguire la sua salita – Vista la performance della discesa, non penso che sia l’abbigliamento il tuo problema maggiore; comunque, chiedilo a Metroman. Magari fa un’eccezione, si ricorda che era un Eroe e ti porta su.

– Tu mi hai portato qui e tu mi tiri su – rispose lapidario l’altro, afferrandogli un lembo del mantello e strattonando.

Il criminale bofonchiò qualcosa di incomprensibile e si lasciò scendere – Sei una disgrazia. Forza, non abbiamo una vita: mani sulla pertica, come quando sei sceso, ma in questo caso devi fare forza anche con le gambe.

Tre quarti d’ora dopo, in un crescendo di isteria, Kurt lamentava calli (invisibili) alle mani e Nightbird era sul punto di strapparsi i capelli – o di strapparli all’altro.

– Sali! – tuonò, spostandolo e tenendosi alla pertica – Non ne posso più di stare qua dentro.

– Mi sembra di aver cercato di salire nell’ultima--

– Le mie spalle. Non tenerti al mantello perché se tiri troppo si sgancia, non stringere alla gola o mi strangoli e, soprattutto, taci cinque minuti.

– E ti aspetti che stia zitto dopo questo tono da-da-, non so, alpha gay rompipalle?

– Io sto salendo, Kurt.

– Sei insopportabile.

– Sono Il Male, no? Che ti aspettavi?

Schivare gli agganci del mantello, tenersi senza strangolare ed imporsi di non guardare giù furono tutte esperienze da annoverare nella lista delle sfighe, ma Kurt dovette ammettere almeno con se stesso, o quantomeno con le stupide farfalle svolazzanti nel suo stomaco, che starsene a qualche metro dal suolo aggrappato a Nightbird, con il naso affondato nell’incavo del suo collo, non era poi così… male; poteva sentire il calore che si sprigionava dalla pelle dell’altro per lo sforzo, il profumo di una colonia meravigliosa (ed era la stessa che usava Blaine. Come aveva potuto non accorgersene in tutto quel tempo?) e quello del gel, che sembrava iniziare a cedere nei ciuffi che sfioravano la nuca sudata e prendevano ad arricciarsi leggermente – quindi i capelli disastrosamente incasinati di Blaine non erano una finzione. Beh, adesso capiva il perché dell’utilizzo ossessivo di gel da parte di Nightbird – anche se una spuma per capelli ricci avrebbe potuto dare risultati interessanti…

Poteva sentire persino il modo in cui i muscoli della schiena e delle spalle si tendevano per sollevarli entrambi su per quella stramaledetta pertica, malgrado la tuta spessa e le parti rigide che fasciavano il petto e a cui si agganciava il mantello, e la cosa sembrava mandare imbarazzanti scintille su e giù per la sua schiena, facendolo arrossire come quando era un ragazzino.

Con un ultimo sforzo, sbucarono dal pavimento dell’armadio dal quale erano scesi e, pregando di non cadere giù proprio in quel momento, Kurt fece forza sulle braccia uscire.

– Wow. Quando lo vedi fare nei film sembra tanto più facile.

– Parla lui, quello che si è fatto portare – commentò alzando gli occhi al cielo Nightbird, passandogli accanto e dirigendosi verso l’uscita.

– Che pensi di fare, adesso? – gli chiese Kurt.

– Non c’è più niente da fare, direi.

– Come?

Nightbird superò la soglia fatiscente della scuola, attraversò il giardino invaso di erbacce, il mantello che ondeggiava nero e blu nell’aria rossa del tramonto.

– Come sarebbe a dire, niente? Vuoi mollare tutto così?

Il criminale si volse, stringendosi nelle spalle – Cosa pretendi da me? Lo so che ho combinato io questo casino, ma ormai… è fatta, Kurt. E se l’unico che poteva salvarvi ha deciso di mollare tutto, come pensi che possa fare qualcosa io?

All’orizzonte Metrocity era rossa e arancio di tramonto e di fuoco, il cielo striato di fumo, ed il rumore degli elicotteri dell’esercito e dei pompieri giungeva fin laggiù così attutito da potersi quasi ignorare.

– Vuoi abbandonarci? Anche tu?

L’espressione di Nightbird era così esausta che si notava chiaramente anche sotto la maschera – Kurt, io non sono l’Eroe: io sono il Cattivo. Io non ho i super poteri, non mi staglio sulla città appena salvata nello svolazzare del mio bel mantello bianco, non ho folle che mi acclamano adoranti, non proteggo il mondo e non conquisto la Fanciulla alla fine della storia – fece una mezza risata, così amara da sembrare una smorfia – Anche perché in questo caso la Fanciulla non è neanche tale, ma questo non cambia le cose. Io non posso salvarvi, Kurt. Tocca a qualcun altro essere l’Eroe, e arriverà, l’ha detto anche Metrom-Finn. Arriverà. Ma non sono io.

Kurt lo vide voltarsi, le spalle curve, trascinando i piedi come se avesse il peso del mondo sulla schiena, e volle infuriarsi perché aveva voglia di piangere ed urlargli contro perché finalmente capiva cosa avesse inteso Metroman e avrebbe voluto che anche Nightbird lo vedesse: l’Eroe c’era già. Col mantello nero e blu, e non bianco, ma c’era e sarebbe bastato così poco perché anche lui lo vedesse.

– Dove vai, adesso?

Il criminale non si volse neppure del tutto, ma Kurt riuscì comunque a vedere che abbozzava un sorriso amaro – A casa. Non c’è un altro posto, per me.

 

~*~

 

Shuester credeva che la sua giornata non potesse andare peggio: la città messa a ferro e fuoco da un pazzo che faceva rimpiangere a tutti le incursioni criminali di Nightbird, i detenuti che speravano di sfruttare il casino esterno per evadere e le sue guardie con i nervi a fior di pelle – come lui, come tutti in città, del resto.

Aveva telefonato al sindaco e Figghins gli aveva risposto dalla sua panic room, delirando che doveva star calmo, che di sicuro i suoi generali gli avrebbero presto consegnato il criminale in manette.

Certo, e io come pensate che possa trattenerlo qua dentro?!, avrebbe voluto gridare lui.

Quindi, quando le guardie dell’ingresso fecero suonare il citofono interno, fece un balzo di mezzo metro e rimase a scrutare con orrore la cornetta: non era sicuro di voler avere qualcosa a che fare con qualunque cosa potesse venirgli da lì. Ma lo stramaledetto affare continuava a trillare irritante e alla fine, compreso che non si sarebbe fermato da solo, si arrese a rispondere.

– S-sì?

– Signore, venga, presto!

– Che-che succede? Qualche pr-problema?

– C’è Nightbird, signore!

Ecco, perfetto, non aveva bisogno d’altro per sapere che quella giornata era segnata; si avviò velocemente ai cancelli d’ingresso e tutto si sarebbe aspettato, nella sua decennale carriera, tranne il criminale che aveva subito per la gran parte di quella decennale carriera attendere in piedi nel primo stallo del carcere con l’aria di un bambino in punizione.

– Che diavolo ci fai tu qui?

E l’altro, in un’immagine che Shuester non aveva neppure osato sognare negli anni, gli tese i polsi: di fronte agli sguardi sconvolti degli agenti carcerari, che rimbalzavano da lui al criminale, si impose di non perdere la calma e si fece passare un paio di manette.

– Solo…

– Cosa? – chiese, sperando che la sua voce non fosse suonata isterica come temeva, e che nessuno si fosse accorto che le manette gli erano quasi cadute per l’agitazione.

– Il vestito. Posso tenerlo? Dopo che avrete fatto tutti i controlli. Almeno il mantello.

E a Shuester sembrò di rivederselo davanti bambino, quando era appena stato espulso e lui gli aveva negato il diritto di poter avere dei libri per studiare; e si sentì un mostro, anche se davanti a sé aveva ora un uomo, il criminale più pericoloso che avesse mai tormentato la città e lo Stato. Beh, il secondo, ormai.

– Vedremo – borbottò, facendo segno ai suoi uomini di portarlo via.

Attese che il più recente acquisto del suo carcere si cambiasse nella divisa arancione d’ordinanza e seguì lui e le guardie fino alla porta della stanza di massima sicurezza, a debita distanza, temendo da un momento all’altro qualche esplosione, fumogeno, qualcosa degli orrori a cui Nightbird lo aveva abituato sin dall’infanzia: invece il criminale si fece scortare nella sua cella, togliere le manette e chiudere la porta alle spalle.

Dall’oblò di vetro antiproiettile lo vide rimanere immobile per qualche secondo nella minuscola stanza verde e azzurra nella quale era cresciuto, volgere appena il capo per guardarsi intorno e studiarne i particolari, e poi, scena che probabilmente non avrebbe mai capito, abbozzare un sorriso sollevato.

– Chiudete – disse, facendo dietrofront verso il suo ufficio.

Quel criminale non lo avrebbe capito mai.

 

~*~

 

Kurt aveva ripreso la macchina (tanto ormai, rubata per rubata… ed era figlio di un meccanico, riaccenderla era stato uno scherzo, dopo il primo momento di panico) e si dirigeva a tutta velocità verso la città: era facile, del resto, visto che l’infinita coda di auto – ormai del tutto immobilizzata ed abbandonata dai loro proprietari, che formavano una colonna disordinata in lento movimento accanto ad esse – occupava ormai solo la corsia opposta alla sua; nessuno, neppure le auto della polizia o dei telegiornali sembravano puntare ormai verso il cuore di Metrocity.

Aveva un piano, continuava a ripetersi, cercando di ignorare le mani che tremavano sul volante; avrebbe funzionato, anche perché non c’erano altre opzioni e lui non intendeva ammettere la sconfitta; in fondo aveva colpa anche lui di tutto quel disastro che gli scorreva davanti e attorno man mano che l’auto avanzava; avrebbe dovuto parlare con David, cercare di spiegargli, di convincerlo che quella non era una soluzione adesso come non lo era stata quando erano ragazzini; che c’era ancora tempo per fare marcia indietro, chiedere scusa e smetterla con quella follia, perché quello non era più un ragazzo impaurito da se stesso che rende un inferno la vita di un compagno di scuola, quello era… era enorme. Era spaventoso, nel fracasso delle sirene, delle ambulanze che sfrecciavano, dei palazzi distrutti, delle macerie polverose o in fiamme attorno alle quali si affannavano disperate le persone; sembrava uno di quegli stupidi film catastrofici che lui e Rachel guardavano insieme nelle serate in cui non c’era nient’altro in tv, quegli stupidi film in cui tanto alla fine andava tutto a posto e non c’era da preoccuparsi perché tanto il gruppo di protagonisti sarebbe sopravvissuto – quantomeno l’eroe figo su cui entrambi spargevano apprezzamenti lusinghieri.

Quello non era un film. Quella non era una catastrofe fatta con gli effetti speciali, ma era vera, tangibile, nella tosse che gli provocavano il fumo e l’aria spessa che filtravano dalle prese d’aria della macchina.

Non sapeva che avesse nella testa Metroman per essersi tirato indietro, o forse era lui a non capire, perché non immaginava cosa fosse combattere con quel genere di cose per anni fino a non poterne più – anche se niente era mai stato così: perché per quanto le battaglie tra lui e Nightbird potessero talvolta essere distruttive, gli effetti non erano mai, mai stati quelli.

Era facile, purtroppo, capire dove si trovasse Titan: bastava seguire il fracasso, le ambulanze, le auto blindate della polizia; quando arrivò nello spiazzo pieno di rottami di case, auto e strada, tra i quali si alzavano le fiamme, si disse come gli fosse venuto in mente di poter fare qualcosa, lui, lì: se Nightbird aveva deciso di non poter essere l’Eroe, beh, di sicuro non poteva esserlo lui, Kurt – ma non aveva voglia neanche di ritrovarsi nel ruolo della Fanciulla che va salvata, perché lei, maledetta, finiva sempre per essere tirata fuori pure dalle esplosioni con giusto qualche sbaffo di fumo su una guancia, strafiga come fosse appena uscita dal red carpet. Facendo il conto di come fosse finito lui in passato, invece, c’era da sperare di portare a casa giusto la pelle.

Oh, suo padre lo avrebbe reso sordo a furia di urlare.

Tentò di fare dei respiri profondi, ma l’aria pesante avrebbe piuttosto finito per soffocarlo, e quindi spalancò la portiera dell’auto e ne uscì, guardando in su: rosso e arancio contro un cielo dello stesso colore, striato di fumo nero, vide Titan.

 – Dave! – chiamò, con quanto fiato aveva in gola.

Il criminale volse lo sguardo su di lui e Kurt seppe con certezza di non aver avuto la più brillante delle sue idee – ma tanto ormai era tardi per tirarsi indietro.

– Ma guarda chi è tornato strisciando – ridacchiò Titan, atterrando con una tale forza da crepare il terreno sotto di lui.

– Non mi risulta che io stia strisciando, David – rispose Kurt – Sono qui per parlare.

– Ah sì? E di cosa? Hai capito quanto sei stato stupido e vuoi chiedere scusa?

– Scusa? Io?! Guarda cos’hai fatto tu!

Titan si guardò attorno con aria compiaciuta – Una figata, eh?

– No, non è una figata, David! C’è gente che soffre, che ha perso tutto, che sta morendo! Come puoi pensare che sia figo? Non è un videogioco!

– Che vuoi che me ne freghi, scusa? Sono sfigati.

Kurt rimase a guardarlo e lo rivide, preciso identico, il David Karofsky che gli aveva terrorizzato anni interi di scuola: gradasso, iroso, ma era sicuro di poter sentire la sua paura fin lì – la paura che lo avrebbe colto non appena si fosse fermato a riflettere su cosa stava facendo, che era il motivo per cui non sarebbe stato facile costringerlo a farlo.

– David, ascoltami. Ascoltami. Sei cambiato da quei tempi, ok? Negli ultimi anni hai imparato ad essere più rispettoso degli altri, di te stesso, sei diventato diverso da quello che eri, migliore!

Titan lo guardò, e Kurt vide chiaramente Dave dietro la maschera rossa – Migliore, eh?

– Certo! Ed è per questo che sono venuto qui per parlarti, perché sono sicuro che tu--

– Se sono diventato così tanto migliore perché non ha funzionato, allora?

– … come?

– Perché mi hai rifiutato? Stavolta credevo di avere tutto, che ti fossi lasciato alle spalle i casini del passato, credevo che finalmente potessi capire che poteva funzionare tra noi, avevo persino un fisico pazzesco come i supereroi dei film, e invece no: appena ho provato ad avvicinarti hai fatto come in passato, come sempre cazzo!, e hai iniziato a tirarti indietro e a frignare e a chiamare quell’altro sfigato! Che devo fare per essere finalmente accettato da te?!

– Smettere di terrorizzarmi ed importi, tanto per dirne una?! – sbottò furibondo Kurt; credeva che quell’aspetto della faccenda fosse ormai chiarito, chiuso definitivamente, e invece a quanto sembrava per David era ancora centrale. E per un attimo, un terribile attimo in cui ebbe le vertigini, Kurt provò ad immaginare di farlo, di dire che invece potevano parlarne, che c’era ancora una possibilità, perché questo avrebbe salvato tutti, la città, la gente, lui e persino Dave.

E poi si immaginò il seguito di quel momento: Metrocity salva, sì, e lui alle prese con una relazione con quell’uomo; immaginò le conversazioni, gli appuntamenti, e niente di tutto quello gli sembrava realizzabile: di cosa potevano parlare, loro due? A lui lo sport non interessava e David sembrava non essere smosso da altro e, anche se avesse smesso di ridicolizzare le cose che lui amava, non avrebbe certo iniziato ad apprezzarle; ma soprattutto immaginò quelle mani, che gli avevano lasciato segni dentro che non se ne sarebbero probabilmente mai andati, provò ad immaginarsi loro due insieme e gli venne un conato di vomito, perché il suo corpo gridava no! e non c’era verso perché lui mentisse anche a se stesso. Perché se per anni aveva avuto problemi a rapportarsi fisicamente, anche solo in amicizia, con il suo stesso sesso era anche per quei traumi che gli avevano lasciato i compagni di scuola delle superiori, perché non poteva non essere certo che le mani che non avevano avuto problemi a colpirlo in passato non tornassero a farlo in futuro, e soprattutto… non erano quelle che voleva. Non lo sarebbero mai state. Perché se prima il loro alterego sarebbe stato un “qualcuno” senza volto, come nelle fantasticherie della sua adolescenza (quando giocava alle principesse e diceva che lui da grande avrebbe sposato un principe come quello di Ariel o di Aurora), adesso quel “qualcuno” aveva un volto, un profumo, un nome preciso.

Ed era Nightbird.

Nel bene o nel male, che lo accettasse o meno, che succedesse ancora qualcosa o meno, chiunque avesse voluto avere a che fare con lui in futuro avrebbe dovuto scontrarsi contro quell’immagine, quel modo di parlare, scherzare, comportarsi, trattarlo.

E Dave, beh, era l’ultima persona che avrebbe mai potuto sostituire ciò che aveva vissuto e poi perduto, anche se era stato vero solo a metà, perché sotto un nome diverso, un aspetto diverso, tutto quello che lui aveva vissuto era stato vero. Per quello faceva ancora così male.

– Non posso, David – sussurrò – Non posso essere quello che vorresti. Ma posso--

Non finì mai quella frase, che comunque forse non avrebbe mai saputo come concludere: con uno scoppio ed un mancamento d’aria, Titan lo afferrò per il collo e lo sollevò, in alto, a velocità pazzesca, verso il cielo.

 

~*~

 

La sua vecchia cella non era male, si disse.

Quantomeno, non era il caso di iniziare a trovarci problemi adesso, visto che sarebbe stato il posto in cui avrebbe vissuto per gli anni che gli rimanevano; gli sembrava più piccola, probabilmente perché aveva imparato a vivere in spazi decisamente più ampi e sentiva che le finestre gli sarebbero mancate, e più silenziosa – e questo, senza ombra di dubbio, era perché non c’era Cooper.

Chissà dov’era finito, si disse, e il cuore diede una stretta dolorosa a quel pensiero: non lo avrebbe visto mai più; non lo avrebbe sentito blaterare mai più sul dramma dell’ennesimo figlio della tizia di The Secret, sul perché Ridge e Brooke fossero destinati l’uno all’altro malgrado gli autori continuassero a farli lasciare, sulla sua convinzione di essere destinato al successo come attore.

Beh, forse adesso poteva diventarlo davvero, ora che non aveva più lui a cui badare e nient’altro che la sua vita di cui occuparsi; forse sarebbe venuto a trovarlo in carcere, chissà – non voleva pensarci troppo, perché cullarsi in quella speranza non avrebbe portato a niente di buono, ma non aveva molto altro a cui pensare o da aspettare.

Kurt, forse, sarebbe passato a trovarlo. Magari i primi tempi, una volta al mese, e poi avrebbe diradato le visite, perché avrebbe trovato qualcuno, là fuori; uno che non fosse un criminale, che potesse mostrarsi col suo vero volto ogni giorno e che non ne avesse paura, che avesse una vita normale e potesse garantirgliene una altrettanto normale. E sarebbe stato felice di non vederlo più a quel punto, perché vedergli di nuovo il volto illuminato, come accadeva quando lui era Blaine, sarebbe stato atroce. O forse no, forse anche in quel caso sarebbe rimasto incantato a guardarlo e si sarebbe imposto di non pensare al perché, a chi ci fosse dietro a quel sorriso, ma si sarebbe limitato a godere quel che gli veniva ancora offerto.

D’accordo, era il caso di smetterla di pensare, si disse afferrando il telecomando.

Fece zapping per qualche minuto, scorrendo tra un notiziario, un talk show, un altro notiziario, un documentario, un altro talk show… finché non vide il volto di Titan sullo schermo.

– Nightbird! – ruggì quello, come se gli stesse parlando dal vivo.

– A posto, adesso lo intervistano pure. Magari ha deciso di trattare – commentò.

– Ascoltami, dovunque ti sei nascosto, sfigato. Abbiamo ancora un conto aperto e ti conviene venire a saldarlo, oppure – e la telecamera si mosse, inquadrando la cima della Metro Tower, il grattacielo più alto della città – Oppure qualcuno pagherà il conto per te. Che ne dici, Kurt?

Con il gelo addosso, tanto che balzò dalla poltrona girevole su cui era seduto come se avesse preso la scossa, Nightbird vide sullo schermo, legato al pilone centrale che si alzava sulla cima del grattacielo e faceva da raccordo per le emittenti radiofoniche, Kurt; aveva i capelli squassati dal vento, il volto pallido e la bocca altezzosamente serrata, tanto che non poté non provare un moto di orgoglio per il suo coraggio.

Ma quando aprì bocca per parlare, riconobbe benissimo la paura che ne colorava la voce – Nightbird, non so se mi stai ascoltando, ma se lo stai facendo… ti prego, non mollare. Non l’hai mai fatto: nonostante le sconfitte, nonostante non avessi quasi mai speranza, non ti sei mai arreso e hai sempre combattuto fino all’ultimo, ed è sempre stato il tuo miglior pregio. Beh… non proprio l’unico – bisbigliò, una nota di tenerezza che gli strappò un sorriso – Non arrenderti. La città ne ha bisogno… io ne ho bisogno. Ti--

La telecamera scattò velocemente di nuovo sul volto furente di Titan – Sai quello che devi fare, sfigato. Vieni qui e chiudiamola una volta per tutte.

E poi la comunicazione si interruppe.

Come impazzito, Nightbird iniziò a guardarsi attorno, provando l’assurda sensazione che la stanza si chiudesse su di lui e vorticasse impazzita come una trottola.

Nononononononono, continuava a rimbombare nella sua testa, non può succedere, non sta succedendo, non Kurt, che c’entra Kurt, perché Kurt?!

Non voleva che finisse così, non l’aveva mai voluto: aveva combinato lui quel casino, perché doveva andarci di mezzo qualcuno, soprattutto Kurt? E come un vigliacco era andato a rintanarsi lì, nell’unico posto che avesse mai considerato una casa, in fondo, ora che non aveva più Cooper, ma dal quale non avrebbe potuto aiutare più nessuno.

Corse al portone blindato e prese a tempestarlo di pugni – Shuester! Shuester! Direttore! Avanti, so che mi sentite, chiamatemi Shuester! Devo uscire, devo, devo salvare Kurt!

Dopo qualche secondo lo spioncino si aprì, rivelandogli l’espressione ironica del direttore – Mi dispiace, Nightbird, ma ho perso il numero di ergastoli che ti mancano da scontare prima che questa porta si riapra.

Il criminale si morse un labbro, furioso – Lo so che ho fatto un casino, non ho fatto altro per tutta la mia vita, ma Kurt è la sola cosa giusta che abbia mai fatto! Ed è una persona meravigliosa e non voglio che gli succeda qualcosa per colpa mia, che diavolo ha nella testa per permetterlo? Ho già perso Cooper perché sono uno stupido, stupido imbecille, l’ho perso perché sono stato troppo arrogante per pensare di poter avere bisogno di qualcuno, ma adessoKurt ha bisogno di me e io non posso rimanere qui a guardare i muri e ad assistere a quel pazzo che distrugge tutto!

L’espressione di Shuester ricomparve nell’oblò – Oh, interessante. Vai avanti. Ne hai per qualche centinaio di anni.

Nightbird rimase ad osservarlo, devastato – Non lo chiedo per me – sussurrò – Sono disposto a tornare qui, dopo, lo giuro. Ma adesso, adesso devo uscire, o Kurt--

– Da solo?

– Come?

– Nel tuo delirante piano pensi di uscire, sconfiggere il Cattivo e poi tornartene qui a marcire da solo?

Nightbird poggiò la fronte contro il vetro, sospirando – Parla di Coop, eh? Non se lo merita di stare qui con me, non dopo come l’ho trattato. E chissà, magari ce la farà a diventare un attore, anzi, lo spero con tutte le mie forze, perché allora farà una marea di serie televisive e film cretini e io potrò guardarlo in televisione, perché non penso di riuscire a sopravvivere un anno senza sentire la sua voce irritante che blatera idiozie, figurarsi una vita.

– Mhm. Questa era convincente – commentò Shuester e la porta blindata si spalancò di fronte a lui – Scuse accettate.

– Cos--

E, davanti ai suoi occhi sgranati, la figura del direttore mutò in quella dell’automa che lo aveva cresciuto e seguito in tutte le follie che aveva commesso fino a quel momento, fedele ed imbecille fino all’ultimo.

– Ciao, scricciolo – ghignò Cooper – Pronto per andare a salvare il mondo?

Nightbird gli si buttò addosso, aggrappandosi a lui come non faceva più da quando era un bambino, facendosi sfuggire un singhiozzo quando sentì le braccia dell’altro stringerlo, confortanti e affettuose come sempre. Gli ci volle qualche secondo, ma poi si districò dall’abbraccio e si rimise in piedi, asciugando gli occhi umidi.

– Però – commentò l’automa, scrutandolo – Sai che mi sembri più alto?

– Va’ al diavolo, Coop.

– Oh, così va meglio. Dunque: andiamo a salvare il mondo e la Fanciulla?

– Certo, come no. Se non ci ammazziamo stavolta, diventiamo immortali.

– Sempre catastrofico, scricciolo! – esclamò l’altro, scompigliandogli i capelli ignorando la loro gabbia di gel – Ce la possiamo fare, me lo sento!

– Te la sei sentita troppe volte perché ormai possa crederci ancora.

– No, dai, ce la puoi fare! Il Cattivo che va a salvare il mondo da un tacchino volante e una Fanciulla maschio e isterico come Kurt Hummel: come può non finire in un successo?

– Non so come tu possa essermi mancato, Coop, ma ci sei riuscito.

– Vero, eh?

– Già – esclamò Nightbird, seguendolo verso l’uscita dal carcere – E questa è la prova definitiva che sto per compiere un’immensa cazzata perché il mio cervello non funziona più.

 


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